Con una recentissima sentenza del 20 febbraio 2019 il Tribunale di Ancona apre a un nuovo filone di cause di risarcimento del danno nella vicenda dei crack bancari italiani, condannando Price Waterhouse Cooper, società di revisione di Banca delle Marche S.p.A. ante fallimento, al risarcimento del danno subito per la perdita di valore dell’investimento azionario nella banca stessa da parte di un risparmiatore/azionista, che aveva sottoscritto, su invito della Banca, n. 348.664 azioni ordinarie, al prezzo di Euro 0,85 ciascuna, nel 2012, vale a dire qualche mese prima che la Banca d’Italia sciogliesse gli organi amministrativi e di controllo interni della Banca sottoponendo la stessa ad amministrazione straordinaria, con conseguente totale perdita di valore delle azioni ordinarie dell’Istituto.
L’azionista citato ha infatti promosso una causa di risarcimento mirando proprio ad ottenere una pronuncia di condanna contro la società di revisione che, a parere suo – e del Tribunale di Ancona che ne ha accolto le tesi – avrebbe certificato malamente una situazione finanziaria della banca non corrispondente alla realtà, con ciò ritenendola responsabile (o, meglio, corresponsabile) dello sfortunato investimento del risparmiatore, che a seguito del default della Banca si è visto azzerato il valore delle azioni.
Si tratta di una pronuncia certamente significativa, destinata ad essere citata in innumerevoli altri giudizi analoghi (probabilmente anche nell’ambito di azioni promosse o da avviare per vicende analoghe che hanno coinvolto altri Istituti di Credito falliti) e che, soprattutto se ripresa da successive sentenze, segnerà un precedente importante che farà da spartiacque nella lotta giudiziaria fra risparmiatori traditi e banche fallite: per la prima volta, infatti, viene condannata a risarcire il danno la società di revisione scelta dalla Banca per certificare i propri bilanci, e considerato che fattispecie simili potrebbero (quantomeno astrattamente) essersi verificate anche negli altri casi di crack bancari cui abbiamo recentemente assistito in Italia, ci si attende un significativo contenzioso sul punto.
Interessante, in particolare, un principio fatto proprio ed enunciato dal Tribunale di Ancona che, pur riconoscendo delle zone d’ombra nelle attività di vigilanza di Banca d’Italia e CONSOB, ha rilevato che le attività di vigilanza esercitate da tali istituzioni non mirano a tutelare specifici interessi individuali, ma l’interesse pubblico al corretto andamento del mercato, pertanto tale interesse fuoriesce dalla sfera “civilistica” a tutto vantaggio ed esclusiva della giustizia amministrativa. Al contrario, rientra nella sfera “civilistica” quell’attività della società di revisione ritenuta non correttamente esercitata dal citato Tribunale, che ha nel contempo rilevato come tale non adeguata attività di revisione e certificazione del bilancio abbia causato al risparmiatore attore il danno che PWC è stata poi condannata a risarcire.
https://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.png00Luca Gioiahttps://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.pngLuca Gioia2019-02-27 10:09:492019-02-27 10:09:49Fallimento Banca Marche: società di revisione condannata a risarcire risparmiatore
Il Tribunale di Monza, con sentenza in data 27 dicembre 2018, si è inserito in una Giurisprudenza (invero tutt’altro che sconosciuta e, anzi, piuttosto lineare nel tempo) che prevede sanzioni differenti, dall’inefficacia alla nullità, per determinati atti compiuti da un’impresa che si collochi, nella relazione contrattuale-commerciale, in una posizione dominante rispetto alla propria controparte contrattuale.
Nel caso in commento, il Tribunale citato ha rilevato che il recesso da tutti i contratti, comunicato con un unico atto dall’impresa dominante, deve ritenersi abusivo, ai sensi dell’art. 9, L. n. 192/98, evidenziando la necessità di eliminare le conseguenze eccessivamente gravose che tale atto avrebbe inevitabilmente comportato in danno dell’impresa “debole”, mitigandole in applicazione della regola di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei contratti, così da pareggiare il significativo squilibrio di diritti ed obblighi altrimenti determinato dall’atto negoziale lesivo.
A tale conclusione il Tribunale di Monza è pervenuto in aderenza di un orientamento consolidato di Giurisprudenza e Dottrina, secondo cui il divieto di abuso di posizione dominante costituisce una sorta di “clausola generale” (al pari, non a caso, della buona fede e correttezza contrattuale, di cui tale concetto rappresenta una vera e propria applicazione pratica), ritenendolo pertanto applicabile non solo alla subfornitura di cui all’art. 1 della L. n. 192/1998 (ossia quella caratterizzata da una condizione di dipendenza progettuale e tecnologica del subfornitore nei confronti del committente), ma anche a tutti i rapporti verticali fra imprese, in funzione produttiva o distributiva. La Corte di Cassazione sul punto ha affermato che l’art. 9, L. n. 192/98 “configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998”.
La sentenza del Tribunale di Monza precisa che, nel caso specifico di recesso da un contratto di distribuzione fra imprese, occorre avere riguardo a due interessi contrapposti: (a) quello del recedente alla interruzione dei rapporti commerciali, e (b) quello contrapposto della controparte alla prosecuzione degli stessi rapporti. Nella soluzione del conflitto fra tali interessi, l’abuso del diritto rappresenta quel criterio alla luce del quale valutare la conformità della condotta delle parti rispetto alla clausola generale di buona fede e correttezza (si veda, per l’approfondimento di tale criterio, la nota sentenza della Cassazione sul caso Renault). La Suprema Corte, dopo avere riconosciuto la vigenza, nel sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, ha affermato che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”. Secondo i giudici della Cassazione “l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica”.
In applicazione di tale criterio, dunque, il Tribunale di Monza ha dichiarato abusivo il recesso dell’impresa dominante, con ciò tuttavia non accogliendo integralmente la richiesta dell’attrice di veder rimosso tout court il recesso, con conseguente continuazione dei rapporti sine die, ma posticipando l’efficacia del recesso di un lasso di tempo tale da permettere alla parte “debole” di fronteggiare il calo di fatturato conseguente all’interruzione del rapporto commerciale e trovare valide alternative sul mercato (e, così, il recesso che contrattualmente avrebbe dovuto avere efficacia dopo sei mesi, è stato aumentato giudizialmente a poco più di un anno).
La sentenza in commento si pone dunque in quel solco di espresso riconoscimento dell’abuso di posizione dominante quale principio non solo interpretativo del contratto, ma anche pratico/sanzionatorio, in merito alla (in)validità di determinate clausole contrattuali, con particolare attenzione alla fase di attuazione effettiva di quei diritti (abusivi) che la parte dominante si sia contrattualmente riservata, in danno della controparte debole.
https://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.png00Luca Gioiahttps://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.pngLuca Gioia2019-02-18 11:10:362019-02-18 11:10:54Abuso di posizione dominante: il recesso può essere nullo
Con una recente pronuncia in data 9 novembre 2018, il Tribunale di Verona ha stabilito che grava sull’intermediario l’onere di comunicare al cliente il valore del c.d. Mark to market di un derivato , così da fornirgli un’informazione tale da consentirgli di avere contezza (quantomeno potenziale) del possibile andamento e, dunque, del possibile guadagno o perdita che può derivare dall’operazione in derivati nel caso di sua estinzione anticipata.
Come noto, secondo la Cassazione Civile “il Mark to market è un’espressione che designa — in larga approssimazione — un metodo di valutazione delle attività finanziarie, che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante il ricorso a indici d’aggiornamento monetario. Esso consiste nell’attribuire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della sua scadenza naturale. Il mark to market è detto anche costo di sostituzione, perché corrisponde al prezzo, dettato dal mercato in un dato momento storico, che i terzi sarebbero disposti a sostenere per subentrare nel contratto stesso (Sentenza 9644/2016)“.
Il Tribunale di Verona, con la sentenza citata, ha ritenuto indispensabile la comunicazione del valore del Mark to market quale elemento per contribuire all’assunzione di un adeguato consenso informato da parte del cliente, prevedendo per la violazione di tale obbligo – ritenuto un inadempimento di non scarsa importanza – la misura della risoluzione del contratto, con conseguente obbligo dell’intermediario di restituire al cliente tutte le somme da esso ricevute in conseguenza dell’operazione in derivati (e, dunque, tutte le somme ad esso addebitate durante il relativo rapporto finanziario).
https://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.png00Luca Gioiahttps://www.lgmstudio.it/wp-content/uploads/2018/12/logo-2.pngLuca Gioia2018-11-28 10:52:162018-11-28 10:52:16Derivati: per la validità del contratto l’intermediario deve comunicare al cliente il valore del Mark to Market
Fallimento Banca Marche: società di revisione condannata a risarcire risparmiatore
/in Non categorizzato /da Luca GioiaCon una recentissima sentenza del 20 febbraio 2019 il Tribunale di Ancona apre a un nuovo filone di cause di risarcimento del danno nella vicenda dei crack bancari italiani, condannando Price Waterhouse Cooper, società di revisione di Banca delle Marche S.p.A. ante fallimento, al risarcimento del danno subito per la perdita di valore dell’investimento azionario nella banca stessa da parte di un risparmiatore/azionista, che aveva sottoscritto, su invito della Banca, n. 348.664 azioni ordinarie, al prezzo di Euro 0,85 ciascuna, nel 2012, vale a dire qualche mese prima che la Banca d’Italia sciogliesse gli organi amministrativi e di controllo interni della Banca sottoponendo la stessa ad amministrazione straordinaria, con conseguente totale perdita di valore delle azioni ordinarie dell’Istituto.
L’azionista citato ha infatti promosso una causa di risarcimento mirando proprio ad ottenere una pronuncia di condanna contro la società di revisione che, a parere suo – e del Tribunale di Ancona che ne ha accolto le tesi – avrebbe certificato malamente una situazione finanziaria della banca non corrispondente alla realtà, con ciò ritenendola responsabile (o, meglio, corresponsabile) dello sfortunato investimento del risparmiatore, che a seguito del default della Banca si è visto azzerato il valore delle azioni.
Si tratta di una pronuncia certamente significativa, destinata ad essere citata in innumerevoli altri giudizi analoghi (probabilmente anche nell’ambito di azioni promosse o da avviare per vicende analoghe che hanno coinvolto altri Istituti di Credito falliti) e che, soprattutto se ripresa da successive sentenze, segnerà un precedente importante che farà da spartiacque nella lotta giudiziaria fra risparmiatori traditi e banche fallite: per la prima volta, infatti, viene condannata a risarcire il danno la società di revisione scelta dalla Banca per certificare i propri bilanci, e considerato che fattispecie simili potrebbero (quantomeno astrattamente) essersi verificate anche negli altri casi di crack bancari cui abbiamo recentemente assistito in Italia, ci si attende un significativo contenzioso sul punto.
Interessante, in particolare, un principio fatto proprio ed enunciato dal Tribunale di Ancona che, pur riconoscendo delle zone d’ombra nelle attività di vigilanza di Banca d’Italia e CONSOB, ha rilevato che le attività di vigilanza esercitate da tali istituzioni non mirano a tutelare specifici interessi individuali, ma l’interesse pubblico al corretto andamento del mercato, pertanto tale interesse fuoriesce dalla sfera “civilistica” a tutto vantaggio ed esclusiva della giustizia amministrativa. Al contrario, rientra nella sfera “civilistica” quell’attività della società di revisione ritenuta non correttamente esercitata dal citato Tribunale, che ha nel contempo rilevato come tale non adeguata attività di revisione e certificazione del bilancio abbia causato al risparmiatore attore il danno che PWC è stata poi condannata a risarcire.
Abuso di posizione dominante: il recesso può essere nullo
/in Non categorizzato /da Luca GioiaIl Tribunale di Monza, con sentenza in data 27 dicembre 2018, si è inserito in una Giurisprudenza (invero tutt’altro che sconosciuta e, anzi, piuttosto lineare nel tempo) che prevede sanzioni differenti, dall’inefficacia alla nullità, per determinati atti compiuti da un’impresa che si collochi, nella relazione contrattuale-commerciale, in una posizione dominante rispetto alla propria controparte contrattuale.
Nel caso in commento, il Tribunale citato ha rilevato che il recesso da tutti i contratti, comunicato con un unico atto dall’impresa dominante, deve ritenersi abusivo, ai sensi dell’art. 9, L. n. 192/98, evidenziando la necessità di eliminare le conseguenze eccessivamente gravose che tale atto avrebbe inevitabilmente comportato in danno dell’impresa “debole”, mitigandole in applicazione della regola di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei contratti, così da pareggiare il significativo squilibrio di diritti ed obblighi altrimenti determinato dall’atto negoziale lesivo.
A tale conclusione il Tribunale di Monza è pervenuto in aderenza di un orientamento consolidato di Giurisprudenza e Dottrina, secondo cui il divieto di abuso di posizione dominante costituisce una sorta di “clausola generale” (al pari, non a caso, della buona fede e correttezza contrattuale, di cui tale concetto rappresenta una vera e propria applicazione pratica), ritenendolo pertanto applicabile non solo alla subfornitura di cui all’art. 1 della L. n. 192/1998 (ossia quella caratterizzata da una condizione di dipendenza progettuale e tecnologica del subfornitore nei confronti del committente), ma anche a tutti i rapporti verticali fra imprese, in funzione produttiva o distributiva. La Corte di Cassazione sul punto ha affermato che l’art. 9, L. n. 192/98 “configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998”.
La sentenza del Tribunale di Monza precisa che, nel caso specifico di recesso da un contratto di distribuzione fra imprese, occorre avere riguardo a due interessi contrapposti: (a) quello del recedente alla interruzione dei rapporti commerciali, e (b) quello contrapposto della controparte alla prosecuzione degli stessi rapporti. Nella soluzione del conflitto fra tali interessi, l’abuso del diritto rappresenta quel criterio alla luce del quale valutare la conformità della condotta delle parti rispetto alla clausola generale di buona fede e correttezza (si veda, per l’approfondimento di tale criterio, la nota sentenza della Cassazione sul caso Renault). La Suprema Corte, dopo avere riconosciuto la vigenza, nel sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, ha affermato che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”. Secondo i giudici della Cassazione “l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica”.
In applicazione di tale criterio, dunque, il Tribunale di Monza ha dichiarato abusivo il recesso dell’impresa dominante, con ciò tuttavia non accogliendo integralmente la richiesta dell’attrice di veder rimosso tout court il recesso, con conseguente continuazione dei rapporti sine die, ma posticipando l’efficacia del recesso di un lasso di tempo tale da permettere alla parte “debole” di fronteggiare il calo di fatturato conseguente all’interruzione del rapporto commerciale e trovare valide alternative sul mercato (e, così, il recesso che contrattualmente avrebbe dovuto avere efficacia dopo sei mesi, è stato aumentato giudizialmente a poco più di un anno).
La sentenza in commento si pone dunque in quel solco di espresso riconoscimento dell’abuso di posizione dominante quale principio non solo interpretativo del contratto, ma anche pratico/sanzionatorio, in merito alla (in)validità di determinate clausole contrattuali, con particolare attenzione alla fase di attuazione effettiva di quei diritti (abusivi) che la parte dominante si sia contrattualmente riservata, in danno della controparte debole.
Derivati: per la validità del contratto l’intermediario deve comunicare al cliente il valore del Mark to Market
/in Non categorizzato /da Luca Gioia