Responsabilità dei sindaci di s.r.l. per l’illecita gestione degli amministratori

Riprendendo un (ormai) consolidato orientamento Giurisprudenziale formatosi nel corso degli ultimi anni (Cass. Civ. 29 dicembre 2017, n. 31204Cass. Civ. 3 luglio 2017, n. 16314Cass. Civ. 13 giugno 2014, n. 13517Cass. Civ. 27 maggio 2013, n. 13081) la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18770 del 12 luglio 2019, è tornata a pronunciarsi sul tema dell’estensione della responsabilità dei sindaci di società di capitali per mala gestio degli amministratori, affermando che la stessa sussiste ogniqualvolta l’eventuale adozione, da parte del collegio sindacale, di uno dei provvedimenti connessi alla carica, avrebbe ragionevolmente potuto evitare (o limitare) l’attività illecita degli amministratori.

Nel caso di specie, la Suprema Corte precisa che l’inerzia dei sindaci nella vigilanza e nell’attivazione dei propri poteri non può ritenersi scusata o giustificata dal rilievo (dagli stessi sollevato) di essere stati tenuti all’oscuro della condotta illecita dagli amministratori, nè tantomeno di avere assunto la carica successivamente alla realizzazione delle condotte dannose, rilevando come (nel caso specifico) anche in epoca successiva l’adozione dei provvedimenti riservati ai sindaci avrebbe consentito di evitare (o limitare) il danno subito dalla società  a causa delle illecite condotte degli amministratori.

La Corte di Cassazione, pur precisando che affinché sussista responsabilità dei sindaci è in ogni caso necessario che ricorra una loro condotta (almeno) colposa e che tale condotta sia in un rapporto di causalità con il danno subito dalla società, parte dal presupposto che il principale dovere del collegio sindacale sia proprio quello di vigilare sulla corretta amministrazione da parte degli amministratori (cfr. articolo 2407, c. 2, c.c.) e, su tale base, essa afferma che per ritenere violato tale dovere di vigilanza non serve arrivare a individuare (e provare) specifici comportamenti dei sindaci contrari a tale dovere, bastando invece dedurre come gli stessi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non adempiere l’incarico con la dovuta diligenza e professionalità qualificata ad essi richiesta.

Sulla scorta di tale principio, per affermare la responsabilità del sindaco sarà dunque sufficiente evidenziare l’omissione di un atto proprio del suo ruolo, quale la segnalazione all’assemblea delle irregolarità gestorie o l’impiego di quegli altri strumenti, accordati al collegio sindacale, più idonei a impedire, fermare o limitare il protrarsi dell’illegittimità della gestione, contenendo così le conseguenze negative per il patrimonio sociale.

A quel punto, dato atto della mancata attivazione del sindaco e del nesso di causalità fra tale omissione e il danno subito dalla società, spetterà ai membri del collegio sindacale, per esimersi dalla responsabilità contro di essi invocata, dimostrare di aver correttamente, efficacemente e tempestivamente esercitato i poteri affidatigli dalla legge.

Nel caso di specie, la Suprema Corte, ritenuti i sindaci onerati della dimostrazione dell’assenza di colpa, ha evidenziato come questi ultimi non siano stati in grado di dare tale prova, a nulla rilevando che l’illiceità della gestione degli amministratori non trasparisse dalle relazioni degli amministratori (dovendo al contrario il collegio sindacale ricercare le informazioni adeguate in maniera autonoma e sganciata dalla mera informativa dall’organo gestorio) e nemmeno risultando esimente il fatto che i sindaci avessero assunto la carica dopo la commissione dell’illecito, poiché comunque essi rimarrebbero onerati di assumere tutte le informazioni necessarie per poi agire di conseguenza.

La decisione della Cassazione in commento risulta in piena linea con i precedenti sull’argomento, riconfermando il principio secondo cui al collegio sindacale deve ritenersi affidato uno specifico e profondo obbligo di vigilanza relativamente non solo alla gestione della società, ma anche all’adeguatezza dei sistemi controllo interno e contabile tali da dare una fedele rappresentazione della gestione da parte degli amministratori. Il potere/dovere  di controllo dei sindaci non può quindi ritenersi esaurito dal solo esame delle informazioni trasmesse dagli amministratori, ma deve ritenersi esteso all’utilizzo doveroso dei poteri di indagine ad essi attribuiti (con la conseguenza che la mancata informativa da parte dell’organo amministrativo non vale ad escludere la responsabilità dei sindaci).

L’obbligo di vigilanza che la legge (secondo l’interpretazione della Giurisprudenza) impone ai sindaci si concretizza pertanto in un monitoraggio concreto e costante della gestione, potendo (e dovendo) i sindaci, in presenza di informazioni insufficienti o lacunose da parte degli amministratori, attivarsi in proprio per acquisire gli elementi mancanti.

Solidarietà nella contribuzione INPS in materia di appalti: inapplicabile all’INPS il termine biennale di decadenza

Con una recentissima pronuncia, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro ha stabilito che il termine di decadenza di due anni previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non è applicabile all’azione promossa nei confronti del committente dagli enti previdenziali per il recupero dei contributi non versati da un appaltatore ai propri dipendenti, rilevando che tale pretesa di detti enti risulta essere soggetta alla sola prescrizione (Cassazione civile, sezione Lavoro, sentenza n. 18004 del 4 luglio 2019).

Come noto, l’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003,  nel prevedere la responsabilità solidale del committente per i debiti retributivi e contributivi dell’appaltatore, stabilisce una decadenza di due anni dalla cessazione dell’appalto per far valere tale diritto nei confronti dell’obbligato in solido.

Ora, il silenzio della Legge sul punto ha da sempre lasciato aperto un dubbio interpretativo (non sempre risolto univocamente dalle corti territoriali) sull’applicabilità (o meno) di tale termine decadenziale anche all’INPS, nella propria azione di recupero dei contributi non versati dall’appaltatore. La sentenza in commento permette di fare luce su quella che potrebbe essere l’interpretazione che, da qui in avanti, verrà adottata nel risolvere tali contrasti (a maggior ragione dopo le modifiche apportate alla norma citata dal D.L. 9 febbraio 2012, n. 5).

Il caso riguarda un ricorso proposto dall’INPS (che si era vista rigettare la propria domanda nei due precedenti gradi di giudizio) che aveva avanzato detta pretesa contributiva attraverso un verbale ispettivo notificato alla società committente a titolo di responsabilità solidale.

In particolare, il Tribunale e la Corte territoriale, in accoglimento delle difese della committenza, avevano confermato l’inefficacia del verbale di accertamento emesso dall’ente poiché decorso il termine di due anni dalla cessazione dell’appalto per l’operatività della solidarietà prevista in materia, posto che tale termine avrebbe potuto essere interrotto solo dall’attività giudiziale (non valendo in tal senso anche la notifica del verbale di accertamento).

Fra i vari motivi di ricorso proposti dall’Istituto, due sono i più rilevanti, ovvero: (a) che il termine di decadenza ex art. 29, d.lgs. n. 276 non può essere applicato all’ente ma solo ed esclusivamente ai lavoratori in quanto l’INPS, nell’esercizio dei suoi poteri d’ufficio, non può incorrere nell’istituto della decadenza, (b) che il decorso del termine biennale, laddove ritenuto applicabile, si possa evitare solo con l’introduzione di un giudizio.

La Corte di Cassazione, con la sentenza citata, ha accolto le motivazioni dell’INPS e, con un ulteriore sforzo interpretativo, ne ha chiarito ed evidenziato la ratio. Secondo la Suprema Corte, infatti, la previsione di un vincolo di solidarietà tra committente ed appaltatore ha la funzione di rafforzare l’adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell’imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore il rischio economico di dovere rispondere in prima persona delle eventuali omissioni di tale imprenditore.

La medesima Suprema Corte ha infatti chiarito che la propria interpretazione (e quindi decisione) si ispira a ragioni di carattere sistematico in virtù dall’assenza, nel D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, di regole relative alla pretesa contributiva nonché alla considerazione della diversa natura delle due obbligazioni. Seguendo tale orientamento, in riferimento alla disciplina generale dell’obbligazione contributiva, la Corte ha ritenuto di escludere l’applicabilità del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di accertamento dell’obbligo contributivo e considerare solo la soggezione al termine prescrizionale, e ciò per diversi ordini di motivi.

Primo, alla luce del principio (invero ormai consolidato) secondo cui il rapporto di lavoro e quello previdenziale, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi, con la conseguenza che l’obbligazione contributiva prevista per Legge in favore dell’’INPS è distinta ad autonoma rispetto a quella retributiva verso il lavoratore.

Secondo, in ragione della rilevanza sociale cui mira l’obbligo contributivo e la previsione di un minimale – che è stato non a caso previsto dalla Legge in modo imperativo, per incontrare un interesse della collettività – non sarebbe coerente ritenere la possibilità che alla corresponsione di una retribuzione, a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore, non possa seguire il soddisfacimento anche dell’obbligo contributivo, e ciò solo perché l’ente previdenziale non avrebbe azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto. Se così fosse si romperebbe il nesso stretto tra retribuzione e contribuzione, con ciò minando quella protezione assicurativa del lavoratore che l’art. 29, D.Lgs. n. 276 del 2003 ha voluto al contrario proteggere.

Su tali basi, la Corte di Cassazione-Sezione Lavoro, con la sentenza in commento, ha concluso affermando il principio secondo cui “il termine di due anni previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione”.

I numerosi e frequenti contenziosi presenti e futuri sul tema della responsabilità solidale del committente per i contributi non versati dall’appaltatore, dunque, dovranno tenere conto di tale principio interpretativo di diritto, che ne travolgerà inevitabilmente molti.

 

Nulle le fideiussioni redatte su schema ABI – la Giurisprudenza di merito conferma l’orientamento

Come noto, a seguire un filone aperto dalla Corte di Cassazione Civile, sez. I, con Ordinanza in data 12 dicembre 2017, n. 29810, sono intervenute numerose pronunce conformi in diversi Tribunali di merito italiani, creando un orientamento oramai sempre più consolidato che mira a ritenere nulle tout court le fideiussioni prestate in favore delle banche se redatte sul famoso schema predisposto dall’ABI.

Ultima in ordine cronologico – a conferma della solidità di tale interpretazione giurisprudenziale – si pone la sentenza del Tribunale di Pesaro, che con decisione n. 275 del 21 marzo 2019, si è pronunciato ribadendo il citato orientamento in parola, che si sta rinsaldando nei diversi tribunali di merito, relativamente alle contestazioni sui moduli fideiussori, sottoposti alla firma della clientela, redatti in modo conforme allo schema ABI, censurato dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55 del 2.5.2005 su parere del 20.04.2005, perché contenente clausole di “reviviscenza di deroga all’art. 1957 c.c. e di “sopravvivenza”, lesive della concorrenza dell’Antitrust.

Con tale pronuncia, infatti, il Tribunale di Pesaro ha statuito la nullità assoluta del contratto fideiussorio  di cui si tratta, in quanto composto di clausole ritenute nulle per violazione della normativa imperativa antitrust prevista all’art. 2, Legge n. 287/1990, la quale (secondo il medesimo Tribunale) non si limita a censurare il negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma si estende a tutta la più complessiva situazione (anche successiva al negozio originario) che realizzi un ostacolo alla concorrenza (sul punto vedi Cass. Civ. n. 29810/2017).

Ciò in aderenza al principio per cui “ la legge antitrust 10 ottobre 1990 n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Pertanto, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ha a propria disposizione ancorhè non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990” (Cass. Civ. sez. unite n. 2007/2005).

Quale conseguenza della declaratoria di nullità stabilita dal citato Tribunale, il Giudice ha precisato che la nullità del contratto riguarda la fideiussione nella sua interezza (e non, come avrebbe sostenuto la banca convenuta, una sola nullità parziale). a sostegno di tale posizione, infatti, il Tribunale di Pesaro ha rilevato che poiché, a norma di legge, qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque modo posta in essere, costituisce comportamento rilevante per l’accertamento della violazione dell’art. 2 della normativa Antitrust, è inevitabile che l’intero contratto, a valle di quella distorsione, sia assoggettato a nullità. E ciò sull’ulteriore rilievo che la citata decisione della Suprema Corte (Cass. Civ. n. 29810/2017) afferma esclusivamente la “nullità del contratto”, non delle singole clausole.

Alla declaratoria di nullità della fideiussione precedentemente rilasciate dagli attori-opponenti in favore della banca convenuta-opposta, è derivato l’accoglimento dell’opposizione, la revoca del decreto ingiuntivo opposto e la cancellazione delle ipoteche e della segnalazione nella Centrale Rischi.

Si noti, in ultimo, che con la medesima sentenza, il Tribunale di Pesaro ha altresì riconosciuto l’ammissibilità della domanda di nullità anche se proposta in corso di causa (benché entro il termine fissato ai sensi dell’art. 183 c.p.c.), avuto riguardo alla rivelabilità d’ufficio della nullità negoziale, così come anche in appello o in cassazione (nel caso di specie, infatti, si trattava di un’opposizione a decreto ingiuntivo proposta anche da fideiussore, che aveva sollevato l’eccezione di nullità solo alla prima udienza di trattazione).

Fallimento Banca Marche: società di revisione condannata a risarcire risparmiatore

Con una recentissima sentenza del 20 febbraio 2019 il Tribunale di Ancona apre a un nuovo filone di cause di risarcimento del danno nella vicenda dei crack bancari italiani, condannando Price Waterhouse Cooper, società di revisione di Banca delle Marche S.p.A. ante fallimento, al risarcimento del danno subito per la perdita di valore dell’investimento azionario nella banca stessa da parte di un risparmiatore/azionista, che aveva sottoscritto, su invito della Banca, n. 348.664 azioni ordinarie, al prezzo di Euro 0,85 ciascuna, nel 2012, vale a dire qualche mese prima che la Banca d’Italia sciogliesse gli organi amministrativi e di controllo interni della Banca sottoponendo la stessa ad  amministrazione straordinaria, con conseguente totale perdita di valore delle azioni ordinarie dell’Istituto.

L’azionista citato ha infatti promosso una causa di risarcimento mirando proprio ad ottenere una pronuncia di condanna contro la società di revisione che, a parere suo – e del Tribunale di Ancona che ne ha accolto le tesi – avrebbe certificato malamente una situazione finanziaria della banca non corrispondente alla realtà, con ciò ritenendola responsabile (o, meglio, corresponsabile) dello sfortunato investimento del risparmiatore, che a seguito del default della Banca si è visto azzerato il valore delle azioni.

Si tratta di una pronuncia certamente significativa, destinata ad essere citata in innumerevoli altri giudizi analoghi (probabilmente anche nell’ambito di azioni promosse o da avviare per vicende analoghe che hanno coinvolto altri Istituti di Credito falliti) e che, soprattutto se ripresa da successive sentenze, segnerà un precedente importante che farà da spartiacque nella lotta giudiziaria fra risparmiatori traditi e banche fallite: per la prima volta, infatti, viene condannata a risarcire il danno la società di revisione scelta dalla Banca per certificare i propri bilanci, e considerato che fattispecie simili potrebbero (quantomeno astrattamente) essersi verificate anche negli altri casi di crack bancari cui abbiamo recentemente assistito in Italia, ci si attende un significativo contenzioso sul punto.

Interessante, in particolare, un principio fatto proprio ed enunciato dal Tribunale di Ancona che, pur riconoscendo delle zone d’ombra nelle attività di vigilanza di Banca d’Italia e CONSOB, ha rilevato che le attività di vigilanza esercitate da tali istituzioni non mirano a tutelare specifici interessi individuali, ma l’interesse pubblico al corretto andamento del mercato, pertanto tale interesse fuoriesce dalla sfera “civilistica” a tutto vantaggio ed esclusiva della giustizia amministrativa. Al contrario, rientra nella sfera “civilistica” quell’attività della società di revisione ritenuta non correttamente esercitata dal citato Tribunale, che ha nel contempo rilevato come tale non adeguata attività di revisione e certificazione del bilancio abbia causato al risparmiatore attore il danno che PWC è stata poi condannata a risarcire.

Abuso di posizione dominante: il recesso può essere nullo

Il Tribunale di Monza, con sentenza in data 27 dicembre 2018, si è inserito in una Giurisprudenza (invero tutt’altro che sconosciuta e, anzi, piuttosto lineare nel tempo) che prevede sanzioni differenti, dall’inefficacia alla nullità, per determinati atti compiuti da un’impresa che si collochi, nella relazione contrattuale-commerciale, in una posizione dominante rispetto alla propria controparte contrattuale.

Nel caso in commento, il Tribunale citato ha rilevato che il recesso da tutti i contratti, comunicato con un unico atto dall’impresa dominante, deve ritenersi abusivo, ai sensi dell’art. 9, L. n. 192/98, evidenziando la necessità di eliminare le conseguenze eccessivamente gravose che tale atto avrebbe inevitabilmente comportato in danno dell’impresa “debole”, mitigandole in applicazione della regola di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei contratti, così da pareggiare il significativo squilibrio di diritti ed obblighi altrimenti determinato dall’atto negoziale lesivo.

A tale conclusione il Tribunale di Monza è pervenuto in aderenza di un orientamento consolidato di Giurisprudenza e Dottrina, secondo cui il divieto di abuso di posizione dominante costituisce una sorta di “clausola generale” (al pari, non a caso, della buona fede e correttezza contrattuale, di cui tale concetto rappresenta una vera e propria applicazione pratica), ritenendolo pertanto applicabile non solo alla subfornitura di cui all’art. 1 della L. n. 192/1998 (ossia quella caratterizzata da una condizione di dipendenza progettuale e tecnologica del subfornitore nei confronti del committente), ma anche a tutti i rapporti verticali fra imprese, in funzione produttiva o distributiva. La Corte di Cassazione sul punto ha affermato che l’art. 9, L. n. 192/98 “configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998”.

La sentenza del Tribunale di Monza precisa che, nel caso specifico di recesso da un contratto di distribuzione fra imprese, occorre avere riguardo a due interessi contrapposti: (a) quello del recedente alla interruzione dei rapporti commerciali, e (b) quello contrapposto della controparte alla prosecuzione degli stessi rapporti. Nella soluzione del conflitto fra tali interessi, l’abuso del diritto rappresenta quel criterio alla luce del quale valutare la conformità della condotta delle parti rispetto alla clausola generale di buona fede e correttezza (si veda, per l’approfondimento di tale criterio, la nota sentenza della Cassazione sul caso Renault). La Suprema Corte, dopo avere riconosciuto la vigenza, nel sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, ha affermato che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”. Secondo i giudici della Cassazione “l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica”.

In applicazione di tale criterio, dunque, il Tribunale di Monza ha dichiarato abusivo il recesso dell’impresa dominante, con ciò tuttavia non accogliendo integralmente la richiesta dell’attrice di veder rimosso tout court il recesso, con conseguente continuazione dei rapporti sine die, ma posticipando l’efficacia del recesso di un lasso di tempo tale da permettere alla parte “debole” di fronteggiare il calo di fatturato conseguente all’interruzione del rapporto commerciale e trovare valide alternative sul mercato (e, così, il recesso che contrattualmente avrebbe dovuto avere efficacia dopo sei mesi, è stato aumentato giudizialmente a poco più di un anno).

La sentenza in commento si pone dunque in quel solco di espresso riconoscimento dell’abuso di posizione dominante quale principio non solo interpretativo del contratto, ma anche pratico/sanzionatorio, in merito alla (in)validità di determinate clausole contrattuali, con particolare attenzione alla fase di attuazione effettiva di quei diritti (abusivi) che la parte dominante si sia contrattualmente riservata, in danno della controparte debole.

Derivati: per la validità del contratto l’intermediario deve comunicare al cliente il valore del Mark to Market

Con una recente pronuncia in data 9 novembre 2018, il Tribunale di Verona ha stabilito che grava sull’intermediario l’onere di comunicare al cliente il valore del c.d. Mark to market di un derivato , così da fornirgli un’informazione tale da consentirgli di avere contezza (quantomeno potenziale) del possibile andamento e, dunque, del possibile guadagno o perdita che può derivare dall’operazione in derivati nel caso di sua estinzione anticipata.
Come noto, secondo la Cassazione Civile “il Mark to market è un’espressione che designa — in larga approssimazione — un metodo di valutazione delle attività finanziarie, che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante il ricorso a indici d’aggiornamento monetario. Esso consiste nell’attribuire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della sua scadenza naturale. Il mark to market è detto anche costo di sostituzione, perché corrisponde al prezzo, dettato dal mercato in un dato momento storico, che i terzi sarebbero disposti a sostenere per subentrare nel contratto stesso (Sentenza 9644/2016)“.
Il Tribunale di Verona, con la sentenza citata, ha ritenuto indispensabile la comunicazione del valore del Mark to market quale elemento per contribuire all’assunzione di un adeguato consenso informato da parte del cliente, prevedendo per la violazione di tale obbligo – ritenuto un inadempimento di non scarsa importanza – la misura della risoluzione del contratto, con conseguente obbligo dell’intermediario di restituire al cliente tutte le somme da esso ricevute in conseguenza dell’operazione in derivati (e, dunque, tutte le somme ad esso addebitate durante il relativo rapporto finanziario).

Sindaci responsabili per l’omessa valutazione dei contratti

Con sentenza n. 19743/2018, la Cassazione Civile afferma un principio, invero non nuovo nella nostra Giurisprudenza, secondo cui i sindaci di una società di capitali devono ritenersi responsabili verso quest’ultima per aver omesso il controllo su contratti ritenuti lesivi per la società stessa. In particolare, la Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità dei sindaci che non hanno provveduto a valutare e controllare il contenuto economico di contratti preliminari stipulati dalla società, ad un prezzo molto inferiore al valore di mercato dei beni promessi in vendita e, su tali basi, ritenuto non congruo, e, atteso che, secondo la richiamata argomentazione, tale omissione avrebbe comportato un danno per la società, che si è vista privata di beni a fronte di una controprestazione economica insoddisfacente, la Suprema Corte ha condannato i sindaci responsabili di tale omissione, in solido con i componenti del consiglio di amministrazione, al risarcimento dei danni cagionati alla società.

Decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità del curatore contro l’amministratore

La Cassazione Civile, con sentenza n. 21662/2018, ribadisce e conferma un proprio (oramai consolidato e assodato orientamento) relativamente alla prescrizione dell’azione del curatore fallimentare nei confronti degli organi amministrativi e di controllo (amministratore e sindaci) delle società di capitali. Nella richiamata decisione, infatti, la Suprema Corte ripercorre i criteri per l’individuazione del termine di decorrenza della prescrizione della menzionata azione di responsabilità, concludendo che il citato termine di decorrenza della prescrizione deve essere ricollegato al momento in cui i creditori avrebbero potuto/dovuto avere oggettiva conoscenza del fatto che il patrimonio della società era divenuto insufficiente a soddisfare le loro ragioni creditorie.

La proposta di concordato deve prendere posizione anche sull’azione sociale di responsabilità

Con decreto in data 27 giugno 2018, il Tribunale di Catania ha dichiarato l’inammissibilità di una proposta di concordato preventivo poiché la società ricorrente, nel piano depositato, aveva omesso di affrontare compiutamente quale sarebbe stato il possibile esito, sia in termini di possibile esito, sia di reperimento di risorse economiche utili alla massa, di un’eventuale azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Secondo il detto Tribunale, infatti, tale omissione avrebbe precluso la possibilità di una valutazione compiuta riguardo alla preferenza della procedura concordataria, rispetto a quella fallimentare.

Mutui – Se l’ISC applicato è superiore a quello pubblicizzato il relativo mutuo è nullo ex art. 117 TUB

Il Tribunale di Udine, con una sentenza emessa in data 5 luglio 2018, ha accolto e fatto proprio il principio secondo cui, nell’ambito di un rapporto di mutuo, l’indicazione da parte di un istituto di credito di un Indicatore Sintetico di Costo (ISC) errato – e nella specie inferiore a quello effettivamente praticato al cliente con il finanziamento erogato – comporta la nullità del contratto di mutuo, in virtù del disposto dell’art. 117, comma 6, TUB.